29 luglio 2010

Romanzo "A" - continua 1.2

(...continuazione...)
  
   A giorni arriverà l’impresa edile. Ho assunto un architetto con l’intenzione di rinnovare questa vecchia dimora, ormai troppo al di fuori dalle regole energetiche e funzionali. Lui mi ha sottoposto molti progetti, alcuni avveniristici, altri tradizionali, ma non mi è facile scegliere un nuovo abito per una casa di famiglia. Ad ogni modo siamo giunti a una conclusione: un sopralluogo fatto, ad ambienti vuoti, da un team composto dall’architetto, da me e da una ditta specializzata in restauri, ci consentirà di confrontare tutte le idee permettendo di unire i miei sentimenti e aspettative alle possibilità strutturali e alle necessità innovative.
   Villa Maria l’ho avuta in eredità quasi trent’anni fa. La mobilia è stata venduta subito e il ricavato, assieme a ciò che nessuno aveva voluto acquistare, era stato donato a Don Mauro, per chi ne aveva bisogno. Ero sicura che nonna avrebbe approvato la mia decisione. Poi avevo chiuso il cancello pensando che sarei tornata presto, ma non è stato così. Vent’anni e il desiderio di affermarmi nel lavoro mi spingevano ad abbandonare la campagna e quella famiglia che consideravo un ostacolo alla mia vita. Ho acquistato una casa in città, ho aperto una mia Agenzia e man mano che il tempo passava, la mia vita mi allontanava sempre più da quello che ero. E da quella casa. In realtà, non l’ho mai considerata davvero come una possibile abitazione.
   Sono una Organizzatrice di Convegni e la mia vita frenetica ha bisogno di un appartamento in centro, vicino a ogni comodità e a tutti i collegamenti sia telematici sia fisici con il resto del mondo. Treni e aerei sono i miei mezzi abituali, convention e feste mondane sono la mia quotidianità, essenziali per la mia carriera: non potrei mai abitare in campagna a centinaia di chilometri dall’aeroporto più vicino.
   O almeno questo è stato finora il mio pensiero. Finché non si è insinuato questo senso di insoddisfazione. Crisi di mezz’età, ha sentenziato un amico. Desiderio di capire chi sono e dove sto andando, mi sento di definirlo io. Sto considerando la possibilità di trasferirmi qui, in questa casa che mi ha visto crescere lasciandomi dolci ricordi della mia infanzia.
   Fermo l’auto nell’aia antistante la casa. Quanto è passato dall’ultima volta che ho trascorso le miei giornate con nonna Maria? Tanti. Troppi. Non si può fermare il tempo che passa portandoci via le persone care, ma ora sento il desiderio di infilarmi sotto una calda coperta di ricordi.
   Soffocata da mille pensieri e intime riflessioni, mi accingo ad affrontare l’ultimo locale della casa ancora ingombro.
   I miei tacchi risuonano, attraversando il vuoto della grande cucina che un tempo era il fulcro della vita familiare. Sulla stanza ci sono lievi tracce del passato: un intonaco ocra, ormai per la maggior parte scrostato, dei buchi sulla parete a segnalare la presenza di qualche quadro, il contorno annerito di credenze e qualche elettrodomestico. Apro le finestre, lasciando passare un vento di fine inverno che, mescolandosi con l’aria stantia di questa vecchia casa, avvolge il mio corpo. Un brivido allontana anche quell’impressione di calore dato dall’emozione di trovarmi nella casa appartenuta alla nonna. Lei è morta molti anni fa, ma confesso di avere una strana sensazione nell’entrare in questa dimora, quasi che il suo spirito sopravviva allo sgombero.
   Mi avvicino alle scale che portano al seminterrato. Oggi si chiamerebbe taverna, ma qui è un locale che più correttamente si può definire “ripostiglio”. Non per le dimensioni, ma per il contenuto: vecchio mobilio, poco più che materiale di recupero, libri e riviste ormai impolverati. La porta di ingresso è nascosta, mimetizzata in una rientranza una volta adibita a focolare. Ricordo ancora che, in occasione di qualche pranzo, nonna ci raccontava di come un tempo non si cucinava sui fornelli ma su una stufa economica a legna che fungeva anche da unico punto di riscaldamento della casa. In un lato di questa rientranza era stata ricavata un’apertura che portava al piano interrato dove la famiglia conservava derrate alimentari e altre cose. Questo varco, aperto in tempo di guerra, era stato mimetizzato per non rischiare che malintenzionati potessero impadronirsi dei beni necessari alla sopravvivenza domestica e in seguito, finita l’emergenza, era rimasta nascosta agli occhi degli estranei quasi a diventare, con orgoglio, un “segreto di famiglia”.
   «…dimmi…»
   «Anna Giulia, sono sempre io. Fabio!»
   «…sì…»
   «Visto che sei già arrivata, che ne dici di darmi l’indirizzo? Magari ti raggiungo e così mi fai vedere questa famosa villa. Ho visto solo gli schizzi dell’architetto, ma credo sia davvero una bella casa. Poi possiamo andare a pranzo e poi…»
   «…ciao.»
   Stavolta il cellulare lo spengo proprio. Non sopporto, in questo momento, l’intromissione di nessuno. Sono nel pieno di una crisi emotivo-esistenziale, impegnata a svuotare di ogni ricordo la casa di nonna, violando anche l’ultima stanza, estremo baluardo di una vita che fu. Non sarà un’impresa facile.
   Scendo le scale, ma ho una insolita sensazione di vuoto sotto i piedi. Succede tutto in un attimo: un trambusto improvviso copre il mio grido. Poi il buio.

   Non so quanto tempo sia passato. Sento la polvere addosso, sul viso, sulle labbra; con fatica tento di aprire gli occhi ma un dolore lancinante alla testa mi fa desistere. Che è successo? Mi rendo conto di essere a terra, distesa a faccia in giù. Provo a muovere, lentamente, le altre parti del corpo: braccia e gambe sono un po’ doloranti ma nulla più; solo ammaccate, direi. La schiena reagisce bene, costole tutto a posto. Adesso riprovo ad aprire gli occhi per guardarmi attorno. Sì, è un dolore sopportabile. Necessario a capire.
   Seduta sul pavimento della stanza, faccio una panoramica e, confortata dalla lieve luce che filtra dalle bocche di lupo, capisco che la causa di tutto il pandemonio e conseguente caduta è la scala. No, non sono inciampata sui gradini, è la scala che si è rotta. Avrei dovuto pensarci, a dire il vero: una vecchia e malandata casa da ristrutturare con un ripostiglio da cui si accede da una scala ancor più malmessa. La scala non era stata costruita in muratura, probabilmente l’aveva fatta il nonno con le sue mani. Un tempo si usava cosi, con i gradini di legno che poggiano su una artigianale struttura di legno. Ma da allora nessuno l’ha più toccata e gli anni di abbandono hanno lasciato il segno. Sicuramente uno degli argomenti da trattare con il team di ristrutturazione sarà la sua sistemazione.
   Come d’abitudine, analizzo la situazione. Sono qui, nel seminterrato della mia casa, dolorante ma non troppo, abiti impolverati e con un paio di strappi su un ginocchio e all’altezza dell’avambraccio. La scala è rotta, quindi non posso risalire, ma non vedo altre vie d’uscita. Ah… sono sola. Sì, perché quando Luigi, l’amico che mi aveva definito donna con la crisi di mezz’età, nonché ex-fidanzato (e sottolineo “ex”) si era offerto di accompagnarmi, io avevo rifiutato con vigore ancora offesa per la sua osservazione.
   Provo a riaccendere il cellulare, forse Fabio non sarà troppo arrabbiato per come l’ho trattato. Gli darò l’indirizzo (ma in fondo, non me lo aveva chiesto lui?) e quando sarà qui mi aiuterà a risalire. Acc… niente da fare: il cellulare qui sotto non prende.
   Non lasciamoci sopraffare dal panico, mi dico. Mi verrà un’idea.

   Mi sento strana, forse la caduta e il conseguente colpo alla testa mi hanno frastornato. Meglio fare un po’ di luce: mi trascino vicino alle bocche di lupo, togliendo ogni ostacolo. Ci sono delle tendine impolverate ma, spostate quelle, la luce di metà mattina arriva a illuminare l’ambiente. La stanza è grande, credo si estenda sotto la maggior parte della casa. È ingombra di vecchi mobili senza valore, quelli che nemmeno Don Mauro ha ritenuto utili per i suoi assistiti: un paio di poltroncine dalla seduta sfondata, una scrivania con i cassetti rotti poggiati sul pavimento, un paio di lampadari fuori moda, una lampada da tavolo e in fondo, sulla parete priva di finestre, una scaffalatura piena di libri, vecchi giornali accatastati e delle riviste legate tra loro, non so con quale criterio, con una corda che le avvolge a forma di croce.
   Mi rendo conto che, senza volerlo, in questo momento posso ampiamente avere ciò di cui, finora, ho lamentato la mancanza: il tempo. Sicuramente prima o poi verrà qualcuno a cercarmi, ma per adesso devo solo attendere.

(...continua...)

1 commento:

Tomaso ha detto...

Buon giorno cara Kimmi.
Quello che avevo detto nella prima puntata lo ho fatto.
Pensa avere un tuo romanzo intero da leggere sarà per me un piacere averlo tutto in una vosta, io non ho la pazienza di aspettare come andrà a finire, sai non è la prima volta che una cosa mi piage e rimango li ore e ore per vedere come sarà la fine, e poi sogno di inserirmi nel personaggio che ha me piace...
Un abbraccio forte e sincero
Tomaso

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